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In
vino veritas, in scarpe Adidas, in doccia Badedas…
Sarebbe il titolo perfetto per ciò che ci accingiamo a scrivere, se non
fosse già stato usato da tale Nunzio Locantore che, quantomeno una parte,
l’ha copiata, dalla traduzione in latino del poeta greco Alceo vissuto
nell'isola di Lesbo nel 600 a.C.
Avremmo voluto prenderci “cura” (termine da cui origina la parola
curiosità) della storia del vino, per conoscere e comprendere
(curare) in che modo il vino ha attraversato la Storia, le leggende e la
letteratura che ce lo racconta, ma ci siamo resi conto che è impossibile
distinguere ciò che è vero da ciò che non lo è, (d’altronde la verità non
esiste neanche nelle aule di tribunale, dove la chiamano realtà
processuale), perciò abbiamo cambiato prospettiva e ci siamo ritrovati in un
mondo cavalleresco ed epico, invischiati in una miriade di romantiche
stravaganze che, tuttavia, sono avvincenti e meritano di essere raccontate.
Come lo immaginereste voi il bicchiere usato da un “Povero Cristo”
(disoccupato, figlio di falegname) per bere un sorso di vino in compagnia di
12 amici in una cena di 2000 anni fa? Bravi! Risposta esatta: tempestato di
smeraldi e rubini, proprio ROBA DA RICCHI! Per la cronaca quella
sera, per non destare sospetti, bevve anche Giuda l’Iscariota che,
evidentemente, conosceva già il detto “Chi non beve in compagnia o è un
ladro o è una spia”. Della
transustanziazione abbiamo già parlato, e così come il pane ne
diviene il corpo, il vino diventa sangue di Cristo che è arrivato agli
ultimi istanti della sua “prima” vita e giace sulla croce. Il centurione
romano Longino gli trafisse il costato con la lancia per constatarne la
morte; il sangue che ne sgorgò fu raccolto da Longino stesso e da Giuseppe
di Arimatea, un seguace di Cristo, che aveva chiesto a Pilato di poterne
deporre il corpo e, insieme a Nicodemo, un altro seguace, aveva partecipato
alla deposizione e alla sepoltura nella tomba che aveva fatto scavare nella
roccia per se stesso, dopo aver raccolto il sangue che stillava dal costato
nel calice utilizzato nell’ultima cena e dopo aver lavato il corpo di
Gesù e averlo avvolto in un lenzuolo (Sacra Sindone). Purtroppo non
si sa dove sia finito il Sacro Graal e sono in tanti ancora a
cercarlo ma, udite udite, disponiamo del sangue del Messia, roba da far
rabbrividire anche il RIS dei Carabinieri. È sufficiente andare a Mantova,
nella Basilica di Sant’Andrea, dove si trova (senza condizionale) il sangue
di Cristo raccolto da Longino, se non ci credete andate a Mantova.
E
già che siamo a Mantova parliamo di Virgilio “lo duca” che accompagna Dante
nella Commedia, allorquando, passando per il Purgatorio, incontrano il poeta
latino Stazio a cui Dante chiede di capirne di più sul concepimento e la
formazione del corpo del nascituro e come questo, fatto di materia, possa
acquisire un’anima immateriale: “…guarda il calor del sole che si fa
vino, giunto a l’omor che de la vite cola”; è la geniale spiegazione
di Stazio con cui Dante, in pieno Medioevo, usa la vite e il vino per darci
una spiegazione tanto biochimica quanto metafisica, dell’energia
(invisibile) del calore del sole, che unendosi alla linfa (sostanza) della
vite, diventa vino. Concetto ripreso da Galileo Galilei, che nel XVII secolo
definiva il vino “La luce del sole tenuta insieme dall’acqua”.
Una visione romantica del vino molto distante da quella dei Baccanali, le
celebrazioni romane in onore del Dio Bacco (assimilabili a quelle greche in
onore di Dioniso), nate con intenti propiziatori, ma a causa o (forse)
grazie al vino divenute di carattere orgiastico e, come tali, vietate
nel 186 a.C. da Marco Porcio Catone (anche se da uno con un nome così
non te lo saresti mai aspettato).
Ma
chi era Bacco? Le leggende sul Bacco (romano) e il Dioniso (greco) sono
sovrapponibili, perciò ci riferiremo a Dioniso, la divinità più antica.
Dioniso era un semidio, figlio di Zeus e di Semele (una mortale figlia di
Armonia e Cadmo re di Tebe), che aveva portato a termine il suo sviluppo
fetale nella coscia del padre, dopo essere stato estratto con un taglio
cesareo dal ventre della madre morta perché folgorata dalla luce di Zeus.
Tutto chiaro? Per dare conto della stravaganza e della bizzarria del
personaggio, la leggenda ci tramanda che venne allevato da Sileno (figlio di
Pan) e crebbe in mezzo a ninfe e satiri; crescendo imparò l’arte della
viticoltura e i segreti della vinificazione di cui fece dono agli uomini
perché lo adorassero come un vero dio. Il suo nome (Bacco/Dioniso) è
indissolubilmente legato a quello della principessa Arianna, figlia di
Minosse re di Creta, e sorellastra del Minotauro, il mostro mezzo uomo e
mezzo toro; Arianna, con il suo filo aveva aiutato Teseo a districarsi nel
labirinto e ad uccidere il mostro, e dopo l’uccisione erano fuggiti insieme
da Creta, ma Teseo, per nulla riconoscente, la tradì con la sorella Fedra e
la lasciò in Nasso (da cui il detto “lasciare iN asso”),
l’isola delle Cicladi in cui Bacco la incontrò e la sposò con festeggiamenti
che hanno stimolato la fantasia di molti pittori che hanno rappresentato il
“trionfo” di Bacco e Arianna in estasi (lett. uscire fuori di
se), grazie al vino che crea euforia
(lett. che rende facile sopportare le pene), in preda all’entusiasmo
(lett. essere posseduti da un dio),
che insieme a tabacco e Venere riduce l’uomo in cenere.
D’altronde, un matrimonio senza vino che matrimonio è? Lo sapeva bene la
Vergine Maria che in occasione delle Nozze di Cana chiese al figlio di
tramutare l’acqua in vino, prendendo 2 piccioni con una fava: far fare un
po’ di pratica con i miracoli al figlio e rianimare la festa che languiva,
pur conoscendo gli effetti dell’abuso da quanto accaduto al patriarca Noè
che, secondo l’antico testamento, dopo il diluvio universale, aveva
impiantato la prima vigna e ne aveva ottenuto il primo vino, ma si era
ubriacato e si era addormentato nudo divenendo oggetto di scherno da parte
di Cam, uno dei 3 figli, mentre gli altri 2, Sem e Jafet, lo avevano coperto
guadagnandosi la benedizione del patriarca. E che gli eccessi possano avere
conseguenze nefaste lo ha compreso il generale assiro Oloferne prima di
chiudere gli occhi per l’ultima volta, mentre la spada brandita dall’eroina
Giuditta, approfittando della sua ubriacatura, gli staccava la testa dal
collo, salvando il popolo ebreo dall’assedio degli Assiri. Era andata meglio
a Polifemo, che dopo essere stato ubriacato da Ulisse e i suoi compagni
aveva perso “solo” la vista, accecato da un palo d’olivo
rovente. Ma chi di spada ferisce... È la maga Circe, infatti, che usa il
vino per stordire i compagni di viaggio di Ulisse e li trasforma in porci;
per loro fortuna l’incantesimo è reversibile e, grazie all’intercessione di
Ulisse, riusciranno a riprendere le sembianze umane e a riprendere il
viaggio di ritorno verso Itaca.
Nella mitologia e nella letteratura greca il vino è spesso un elemento
determinante, ma non è da meno la vite che compare spesso nei poemi omerici.
Nell’Iliade la troviamo incisa nello scudo che il Dio Efesto aveva forgiato
per Achille dopo che aveva perduto il suo scudo oltre che l’amico Patroclo
che lo aveva trafugato insieme al resto dell’armatura per fingersi il Pelide
in battaglia, ma era stato ucciso da Ettore che lo aveva creduto Achille;
nell’Odissea ci viene descritta una grande vite carica di grappoli
all’ingresso della profonda grotta in cui viveva la bellissima e immortale
Calipso, nella mitica isola di Ogigia, dove aveva trattenuto Ulisse per 7
anni, prima che il re di Itaca potesse far ritorno in patria.
Ma
ad alimentare il mito della vite, dell’uva e del vino ha contribuito anche
la ricerca moderna, che non è ancora riuscita a spiegare come l’Uomo sia
riuscito ad ottenere dalla Vitis Sylvestris, la forma
“selvatica”, la subspecie Vitis Vinifera, che è la vite
“domestica” che produce l’uva con cui si fa il vino. L’enigma
risiede nel fatto che la forma selvatica di vite è dioica, cioè gli organi
sessuali maschile e femminile risiedono in piante distinte, perciò non si sa
come si sia arrivati ad ottenere quella domestica che, invece, ha fiori
ermafroditi nella stessa pianta. Ed è proprio la complessità del processo
che avrebbe portato ad ottenere le viti domestiche, il pilastro su cui si
fonda la convinzione che la diffusione verso il resto del mondo conosciuto
si sia avviata da un singolo sito, che oggi si ritiene essere nel Caucaso,
l’istmo di terra che separa il Mar Nero dal Mar Caspio. Non a caso, secondo
la mitologia, è proprio nella Colchide (l’odierna Georgia) che Giasone e i
suoi compagni (Argonauti), alla ricerca del Vello d’Oro
dell’ariete Crisomallo, dopo varie peripezie e parecchie perdite, giungono
con la nave Argo, e nei giardini del palazzo di re Eete (padre di
Medea) trovano una fonte da cui scaturisce un vino che li ristora e possono
riposarsi all’ombra di una gigantesca vite piena di pampini, prima di
trafugare il vello con l’aiuto di Medea e far ritorno in patria; ed è
proprio in Georgia che un gruppo di archeologi ha rinvenuto quella che si
considera la più antica cantina del mondo, risalente al 5800 a.C.,
localizzata nel sito di Godachrili Goa, avendovi rinvenuto acido tartarico,
sostanza presente in grandi quantità solamente nel vino e perciò usata per
le ricerche di archeo-botanica.
Nella Mesopotamia antica la principale bevanda alcolica era la
birra, e gli studi farebbero ritenere
che la vite inizialmente venisse coltivata principalmente per la produzione
dell’uva, consumata come frutta. I primi riferimenti storici alla
viticoltura e al vino tra i Sumeri risalgono al III millennio a.C.,
nell’epopea di Gilgamesh, il leggendario re di Uruk, città sulle rive
dell'Eufrate (citata anche nell'Antico Testamento e oggi identificata con le
rovine di Warka in Iraq), che nel III millennio a.C. dominava gran parte
della Mesopotamia ed era il centro della cultura sumera preconizzatrice
degli imperi assiri e babilonesi; i racconti sono incentrati sulla
mortalità umana e sul tentativo di Gilgamesh di sfuggirvi entrando nel regno
del sole, dove scopre un vigneto sacro il cui vino potrebbe finalmente
garantirgli l'immortalità…
Nell’antico Egitto la vite non era coltivata e il primo vino veniva
importato dal Levante (come evidenziato da ritrovamenti di anfore risalenti
al 3150 a.C.), e usato soprattutto dalle elites e dalla classe sacerdotale (ROBA
DA RICCHI!); non è un caso che anche ai giorni nostri si dica “Chi sa
il latino loda l’acqua e beve il vino”. Nella cultura egizia le
testimonianze si ritrovano in numerosi geroglifici i cui racconti si
inseriscono nell’eterna lotta fra Horus (figlio di Iside e Osiride) e lo zio
Seth per la conquista del trono, rimasto vacante per via dell’uccisione di
Osiride da parte del fratello Seth. Durante una battaglia Horus perde gli
occhi che vengono seppelliti nel terreno per opera della madre Iside; in
quella terra nacque un vigneto di cui Iside si prese cura per poi insegnare
agli uomini la viticoltura e svelare il segreto della vinificazione.
L’arrivo della vite nell’Italia meridionale e in Sicilia si deve alle prime
colonizzazioni greche, e le tracce più antiche della produzione di vino per
il momento sono quelle ritrovate nella Grotta della Serratura, nel
salernitano, risalenti al IV millennio a.C., seguite dai ritrovamenti in un
sito della Tarda Età del Rame (seconda metà del III millennio a.C.) situato
sul Monte Kronio nel territorio di Sciacca in Sicilia; Sicilia che dai Greci
meritò l’appellativo di Enotria (Terra del Vino).
Ma
riguardo al vino, ai Greci dobbiamo anche molto di più: gli siamo debitori
di fantastiche leggende e dell’etimologia di numerose parole legate al mondo
del vino, a partire dalla parola stessa che deriverebbe da Oineo (Eneo). Il
mito narra che Oineo, re di Calidone e discendente di Deucalione e Pirra,
unici superstiti di un mitico diluvio universale, aveva ospitato il
Dio Dioniso in casa sua; resosi conto che Dioniso si era invaghito di sua
moglie Altea, con una scusa si era allontanato di casa per lasciare i due
nell’intimità. Al suo ritorno, per sdebitarsi della “grande” (oggi diremmo
insolita) ospitalità, Dioniso aveva regatato ad Oineo una vite e gli
aveva insegnato a produrne la bevanda a cui aveva dato il nome oinos
(vino) in segno di gratitudine verso il suo ospite; d’altronde
“Non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca”. Una storia
strana (ma non troppo), che richiama alla mente un antico detto siciliano,
citato anche da Sciascia, in tema relazioni extra-coniugali, “Le corna
sono come i denti: fanno male quando spuntano, ma poi servono per mangiare”,
per cui si può chiudere un occhio sul tradimento se porta qualche vantaggio
(con buona pace del delitto d'onore). Alcune versioni del mito di
Oineo integrano anche altri personaggi fra cui un giovinetto amato da
Dioniso, il cui nome venne dato dal Dio alla vite (“Ampelo”),
e un pastore di nome Stafilo (che significa “grappolo”),
che per primo aveva sperimentato l’effetto psicotropo del vino, ed è forse
da allora che la saggezza impone “Cibo finché dura, ma vino nella giusta
misura”.
La
diffusione della viticoltura nel resto del bacino del Mediterraneo si deve
alle antiche popolazioni italiche e ai Romani che la portarono anche nel
Nord Europa, da dove ha poi raggiunto l’America (così come l’Australia)
parecchi secoli dopo; ma nel XIX secolo accade qualcosa che sconvolge la
viticoltura mondiale: dall’America arriva in Europa la Fillossera, un
insetto che attacca l’apparato radicale e distrugge gran parte dei vigneti
tra il 1870 e il 1950; una piaga che, ancora oggi, viene combattuta
innestando la varietà di vitigno desiderata su specie di viti che non
producono uva adatta alla vinificazione, ma sono resistenti alla Fillossera
(e che perciò vengono chiamate portainnesto), soprattutto di provenienza
americana (Vitis berlandieri, rupestris, riparia, labrusca). L’innesco della
devastazione dei vigneti europei fu la velocizzazione dei viaggi
transatlantici; la Fillossera, infatti, ha un ciclo biologico/riproduttivo
di circa 20 giorni, e solo quando i viaggi fra l’America e l’Europa
cominciarono a durare meno di 20 giorni, questo insetto poté sbarcare sul
vecchio continente ancora vivo. In questa vicenda si “innesta” una curiosità
riguardante l’uva fragola, prodotta da Vitis labrusca, e il vino fragolino
la cui produzione e commercializzazione è vietata dalla legge; se leggete
attentamente l’etichetta di ciò che viene commercializzato, infatti, non
troverete scritto “Vino”, ma “Bevanda a base di uva fragola”, perché per la
legislazione italiana non può essere chiamato vino non essendo derivato da
Vitis Vinifera, legislazione che si era resa necessaria per contrastare la
produzione di vino direttamente da viti americane o dai loro ibridi che, non
rendono necessario il ricorso all’innesto (cosiddette viti a piede
franco), ma producono vini di pessima qualità.
Non
è sicuramente roba da ricchi aprire una bottiglia di vino e riunire
un po’ di amici attorno alla tavola, perché si sa che “a tavola non si
invecchia” e che “l’acqua fa male mentre il vino fa cantare”
perché “il vino è come l’amore, scalda la testa e il cuore” e
“arrivati al fondo d’un bicchiere, anche il più timido esprime un parere”
perché “quando il vino rende lieti, se ne fuggono i segreti”, perciò
“per farsi un amico sincero basta un bicchiere di vino leggero”,
“ma per conservarlo, in presenza lo devi onorare, in assenza lo devi lodare
e nel bisogno lo devi aiutare”, perché solo chi ha tanti amici è
ricco. |
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di averne le competenze per farlo). Ciò che ci anima è il desiderio di
condividere quello che nel tempo abbiamo imparato sul vino, sulla birra, sui
formaggi, sui salumi e, in generale, su specialità ed eccellenze
enogastronomiche. Nessuna struttura organizzativa, nessuna quota
associativa, non vendiamo nulla! Creiamo semplicemente occasioni di incontro
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in gruppo, cercando di creare un'atmosfera conviviale e piacevole in cui
ampliare le nostre conoscenze enogastronomiche, assaporando e degustando
prodotti di eccellenza; che tu sia un semplice appassionato in cerca di
nuove esperienze o un esperto conoscitore, non c’è differenza: quando ci si
ritrova insieme si impara, si insegna e si rispettano le opinioni di tutti.
I nostri incontri ti daranno l’occasione di incontrare persone appassionate
come te e condividere momenti piacevoli mentre degusti selezioni di vino o
di birra attentamente curate ed esplori nuovi sapori che deliziano il
palato. Il nostro motto è «Ede, Bibe, Ama» (Mangia, Bevi, Ama),
un’esortazione ad esplorare il mondo del cibo e del buon bere per arricchire
le proprie conoscenze, senza trascurare l’opportunità di aprirsi e creare
legami autentici con le persone che ci circondano e con cui stiamo
condividendo un Percorso sensoriale. Le parole che ci piacciono di più,
oltre a degustazione, sono passione, ospitalità, cortesia, compagnia,
condivisione, incontri, conoscenza, amicizia, emozioni, salute e benessere;
e tutto questo può essere generato solo da un’esperienza sensoriale di
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